ACCADEMIA DEL GUSTO
LA SPEZIA 2006

 

Sapori e saperi

LA FARINATA COME LA GIOCONDA

di Spartaco Gamberini
(Professore Emerito dell'Università del Galles)

La pizza rappresenta il successo gastronomico  più strepitoso che si sia avuto nei tempi moderni. Con la sua gioiosa meridionalità e la suprema versatilità è diventata il piatto più conosciuto nel mondo.

Non così la farinata, che conserva la sua ritrosia ligure. Il suo àmbito va da Nizza alla Versilia, ed è difficile trovarla fuori di quest’arco. I Francesi dicono di averla inventata loro, ma sono i soliti sciovinisti, e la loro farinata è una specie di polentina sottile. In Versilia la chiamano “cecina” e la fanno molle e spessa, mangiandola farcita in una focaccia, come fosse salame. E’ noto che Michelangelo, quando andò all’Altissimo, disse a quelli di Colonnata: “il marmo e il lardo l’avete bòno, ma la cecìna l’è una schifezza”. Mia moglie, che è di quelle parti, mi decantava la bontà della cecìna in mezzo alla focaccia, che mangiava da ragazza. Tempo fa, presa da entusiasmi giovanili, entrò a Querceta in un negozio ordinando quella roba, che poi quasi le fecero una lavanda gastrica.

Perché la farinata, quella vera, la si fa solo alla Spezia. Anche qui sono pochi i luoghi dove la si mangia nel suo genuino splendore: dal colore dell’oro antico, qua e là lievemente brunita, di moderato spessore, morbida ma con un sottilissimo velo superficiale che quasi crocchia in bocca, non unta, ma nutrita di olio di oliva purissimo, è cotta, rigorosamente, al forno di legna nelle grandi teglie di rame. La farinata è un antipasto, è splendida come primo, meravigliosa come secondo, sostituisce vantaggiosamente insalata, frutta, formaggio, dolce e grappino. La vera farinata nutre e non gonfia. La meravigliosa abilità con cui i grandi farinatai la tagliano in fette lunate dice che la farinata è femmina, come quelle donne belle e ritrose, che non si concedono, perché la farinata è la famiglia. Quando i miei figli vengono dall’Inghilterra, la prima cosa che fanno è di riaffermare la loro italianità, anzi spezzinità, con il rito della farinata. La mangiano tutti, dai bambini di un anno, a me che ormai son venerando.

 

E’ per questo che, leggendo su un giornale locale l’intervento di Franco Carozza, allarmato di alcune “variazioni” della farinata che vanno per la maggiore ormai in tante pizzerie, mi son detto: evidentemente i maestri farinatai avranno fatto una vacanza a Pechino dove, assaggiato il famoso piatto “filetto di bianchetto su cece, in mousse di fiori di bambù” si saranno detti: “quando torniamo alla Spezia elaboreremo questa idea”. Il che è bello e commendevole. Con una sola preghiera. Chiamate il vostro piatto come volete, che so: “suprême di bianchetti al cece sprugolino”, ma non usate la parola “farinata”. Perché la farinata sta in quella categoria di entità uniche, come il teorema di Pitagora, la Gioconda, l’Arma dei Carabinieri, che sono così o non sono. Non si può dire “la somma dei quadrati costruiti sui cateti del triangolo storto, ecc. “Se è storto non è più il teorema di Pitagora. Se un carabiniere si mette le dita su per il naso non è un carabiniere. Marcel Duchamp, nel 1919, ha fatto i baffi alla Gioconda, ma la sua non è la Gioconda, è una nefandezza.

In sostanza, Amici, la farinata è una cosa seria, non ci si scherza sopra, è un aspetto del Golfo, una entità culturale, che a nostra volta dobbiamo passare alle prossime generazioni. Gestiamola, se possiamo, con cura. 

 

Q Home